martedì 16 dicembre 2014

Laboratori gratuiti all'Hangar

Domenica 21 dicembre 2014 — 15.30 
HangarBicocca, via Chiese 2, Milano 
max.20 ragazzi
90 minuti circa 
prenotazione obbligatoria qui

Manifestiamoci! 
Caratteri tipografici, disegni, fotografie si mescolano tra loro creando delle pareti che raccontano l’immaginario visivo dell’artista Céline Condorelli. Attraverso un breve viaggio in mostra e nella storia della tipografia realizziamo un manifesto che parli di noi dando libero sfogo alla creatività.

domenica 14 dicembre 2014

2A - L'aggressività

Parlando di aggressività abbiamo parlato di comportamenti. Impossibile non citare il padre dell'etologia, Konrad Lorenz.

Konrad Lorenz nasce a Vienna nel 1903. Studia medicina a New York e a Vienna, laureandosi nel 1928. Nel 1933 consegue anche la laurea in zoologia. Durante il conflitto viene fatto prigioniero dai russi. Nel 1949 viene pubblicato L’anello di Re Salomone (di cui abbiamo letto in classe un brano), destinato a rimanere la sua opera più celebre insieme a E l’uomo incontrò il cane, del 1950. Negli anni 1961-1973 è Direttore dell’Istituto Max Plank per la fisiologia del comportamento di Starnberg, in Baviera. Nel 1973 gli viene assegnato il Nobel. Lorenz estende i suoi interessi alla sfera sociale e culturale. Dall’etologia animale si passa così all’etologia umana. Il cosiddetto male, del 1963, affronta il tema dell’aggressività intraspecifica.




In questo scritto Lorenz sostiene che l’aggressività è un comportamento innato, impossibile da far derivare dai soli stimoli ambientali. L’aggressività sarebbe quindi una componente strutturale di ogni essere vivente che svolge un ruolo fondamentale nella sopravvivenza della specie.
Basti pensare alla conflittualità per la delimitazione del territorio, la scelta del partner nella riproduzione, la formazione di gerarchie all’interno del gruppo. Il libro suscitò polemiche violentissime, dato che Lorenz estese le sue riflessioni all’ambito umano.
Questo perché esistono diverse scuole di pensiero per spiegare l’aggressività della nostra specie: i comportamentisti ritengono che tutti i comportamenti derivano dalle influenze e dagli stimoli ambientali, che, modificati, modificherebbero gli stessi comportamenti. Lorenz, al contrario, considera l’istinto un dato originario, geneticamente condizionato, innato.
L’opera di Lorenz non è però un’apologia della violenza e della guerra; semplicemente mette in guardia dalle utopie che non tengono conto del funzionamento dei comportamenti innati.
Giorgio Celli, etologo e scienziato italiano che scrisse una prefazione al testo di Lorenz, distingue tra aggressività e predazione.

Giorgio Celli, etologo, entomologo e gattaro
Celli considera aggressività solo quella intraspecifica, tra membri della stessa specie.
L’aggressività interspecifica (ad esempio quella del leone con la gazzella) è invece predazione, che risponde al bisogno di sopravvivere e di nutrirsi.
Perché esiste in natura l’aggressività?
Nel mondo animale l’aggressività svolge fondamentalmente alcuni compiti:
 - tra individui maschi per assicurarsi l’accoppiamento e riprodurre il proprio patrimonio genetico
- stabilire gerarchie nel branco (come nei lupi)
 - circoscrivere un territorio che fornisce risorse preziose per la sopravvivenza.

Del primo caso di aggressività, l’esempio riportato è quello della lotta rituale tra i cervi, a suon di cornate. È lotta ritualizzata, che non ha lo scopo di uccidere l’altro maschio.
Tra i lupi, e i loro discendenti cani, la lotta ha sempre e solo lo scopo di stabilire una gerarchia, mai quello di uccidere l’avversario. Chi perde nello scontro, infatti, si mette pancia all’aria e mostra il suo punto più debole, cioè la giugulare. Solo i cani addestrati per i combattimenti arrivano ad uccidere l’avversario.
Celli racconta di un pettirosso che una volta insediatosi in un albero, reagiva in modo aggressivo nei confronti di tutti gli altri pettirossi. In questi casi l’aggressività ha una funzione utile per la sopravvivenza della specie: l’allontanamento dei rivali da un certo territorio è utile perché in questo modo gli individui che perdono sono costretti ad occupare nuovi territori, diffondendo così la specie.

Gli studi antropologici di Margaret Mead (Sesso e temperamento, 1967) su diverse società della Nuova Guinea, dicono che l’aggressività in queste società si manifestava questo modo: la tribù Arapesh risultava essere particolarmente mite; mentre i Mundugumor mostravano comportamenti fortemente aggressivi e crudeli.

L'antropologa Margaret Mead nel 1978
Negli Arapesh non c’è assenza di aggressività, bensì esiste una diversa “gestione” dell’aggressività: Margaret Mead scrive che i ragazzi arapesh vengono educati a scaricare l’ira non su altri ragazzi ma su oggetti: se due ragazzi, mentre giocano, vengono a lite, subito interviene un adulto e li separa, l’aggressore viene allontanato dal luogo di gioco e trattenuto; egli può poi battere i piedi per l’ira, gridare, rotolarsi nella sporcizia, gettare a terra pietre e ceppi di legno, ma non può toccare altri ragazzi!

Queste osservazioni suggeriscono alcune considerazioni relative all’educazione: l’educazione può incidere sulla modalità di gestione dell’aggressività e canalizzarla diversamente, impedendo di scaricarsi in forma violenta su altri esseri umani.

Come è nata la degenerazione dell’aggressività in violenza?
La spiegazione di Celli è storico-tecnologica: sta nell’invenzione di nuove armi che consentono l’ uccisione del nemico da una distanza crescente. Questo fattore ha azzerato i naturali meccanismi di inibizione, presenti probabilmente nella primitiva lotta corpo a corpo.
Per esempio, chi ha sganciato le bombe su Hiroshima e Nagasaki, oltre ad forti motivazioni ideologiche, ha dovuto semplicemente premere un pulsante: non ha visto né avuto percezione diretta e immediata delle conseguenze del suo gesto.
Esiste infine la diversità culturale nell’affrontare l’aggressività e la sua degenerazione in violenza: esistono culture che enfatizzano la competizione e la violenza, a scapito dell’empatia e della cooperazione. Per Celli è indicativo osservare i mass media e la comunicazione pubblicitaria. I mass media e la pubblicità offrono micronarrazioni mitiche che stimolano le pulsioni sessuali e aggressive. Se l’aggressività è una pulsione umana ineliminabile, bisogna interrogarsi seriamente su come questa pulsione possa essere gestita in modo non distruttivo, così come ci insegnano i nostri parenti animali!

2A - Aggressività, cooperazione, altruismo

La cooperazione è la capacità dei viventi di vivere agendo assieme. L’altruismo rappresenta invece una forma di cooperazione che non offre immediati vantaggi a chi la manifesta.
L’animale-uomo è geneticamente predisposto a interagire con i consimili. Siamo allo stesso tempo anche soggetti ad aggressività, al territorialismo, alla competizione per le risorse, all’irritabilità, a conseguire uno status gerarchico di dominanza.

Molti aspetti della cooperazione mutualistica e altruistica nell’uomo sono ancora poco chiari, e che gli studi del secolo scorso non tenevano in gran conto i dati provenienti dagli studi sull’evoluzione culturale: in altre parole, sulle modalità stesse con le quali le tradizioni, i riti, le credenze, le organizzazioni sociali e le istituzioni si siano formati nel tempo.

Noi abbiano considerato alcuni esempi tratti dal mondo animale.

LUPI 
Struttura sociale 
Il Lupo vive in branchi, unità sociali stabili, che cacciano, allevano la prole e difendono il territorio in maniera integrata e coordinata (Mech & Boitani, 2003). Generalmente il branco corrisponde ad una unità familiare che nasce quando due individui di sesso opposto si incontrano in un territorio idoneo e si riproducono. La dimensione media dei branchi è di circa 7 individui (Mech, 1970) ma può variare da un minimo di due ad un massimo di 15 nel periodo invernale (sono segnalati anche casi eccezionali con 36 individui in un branco).
I cuccioli generalmente rimangono all’interno del branco fino al primo anno di età, e man mano che si avvicinano alla maturità sessuale possono prendere due direzioni diverse: disperdersi, con lo scopo di creare un nuovo branco oppure rimanere all’interno del branco natale nella speranza di acquisire uno status di riproduttore.



Gerarchia 
La stabilità del branco viene garantita dai legami sociali che si formano tra i singoli individui attraverso un insieme di comportamenti e strumenti di comunicazione (olfattiva, visiva e acustica); questi legami seguono una struttura gerarchica in cui ogni esemplare ha una sua posizione ben precisa e di conseguenza dei privilegi maggiori o minori nelle varie attività (alimentazione, riproduzione, caccia, difesa del territorio etc.) (Mech, 1970).
Esistono due linee gerarchiche: una per i maschi e una per le femmine. Il maschio e la femmina più forti e quindi al vertice della gerarchia formano la coppia riproduttrice detta anche coppia alfa; scendendo verso il basso nella gerarchia si trovano gli altri individui subordinati.


La struttura gerarchica del branco può cambiare, attraverso soprattutto le interazioni tra gli individui che lo costituiscono ed è causata molto spesso dalla variazione dei rapporti di forza tra gli individui dovuti all’età o a problemi di salute; il capobranco è di solito il maschio dominante, che non necessariamente è il più vecchio: esso ha il controllo di tutto il branco, inclusi gli altri maschi, anche i più vecchi, che si sottomettono a lui con i tipici atteggiamenti "affettuosi" che assumono di solito i cuccioli nei confronti dei genitori.



La vita in gruppo permette la difesa del territorio, una migliore utilizzazione delle risorse alimentari e, soprattutto, condizioni più sicure per allevare i cuccioli. Possedere un territorio significa conoscerlo a fondo, perché ciò aumenta la possibilità di trovare un rifugio sicuro quando incombe un pericolo. Vivendo in gruppo, i cuccioli restano relativamente a lungo in contatto con gli adulti – di regola per un periodo superiore a un anno, e tale permanenza equivale a un apprendistato alquanto lungo. La forma di organizzazione sociale del lupo è il gruppo familiare o il branco, dove esiste una gerarchia chiaramente definita.
Il compito più importante del branco è la protezione dei cuccioli. In tale contesto, uno dei compiti tipici degli adulti è quello di avvertire i cuccioli in caso di pericolo, oppure di ricondurli sempre nella tana e nutrirli. La coppia alfa è al vertice della gerarchia, seguita dal maschio beta. La coppia alfa decide in merito alle attività vitali del branco: la caccia, gli spostamenti del branco, la difesa del territorio (marcare il territorio, ululare).

Il compito più importante della coppia alfa è però quello di regolare la procreazione all’interno del branco. Il controllo viene esercitato soprattutto da parte della femmina alfa, che impedisce alle altre femmine del branco di riprodursi. In linea di massima è sempre la femmina alfa che si riproduce. Le altre femmine del branco partecipano spesso all’allevamento dei cuccioli, mentre i lupi subadulti svolgono il ruolo di guardiani. Essi impediscono che le aggressioni fra i cuccioli e i giovani lupi debordino, prima che esse siano state ritualizzate.
La coesione interna al gruppo, la preservazione della struttura sociale, la difesa del territorio, in poche parole la sopravvivenza del branco, dipendono dalle capacità di comunicazione dei lupi. È impossibile mantenere una gerarchia in un gruppo, se non si possiede un linguaggio evoluto. I lupi hanno sviluppato un sistema di comunicazione complesso, basato soprattutto sull’espressione facciale, corporea, e dello sguardo, sulla vocalizzazione e sulle comunicazioni olfattive (urina, feci, tracce di raschiamenti con le unghie sul terreno). Succede, a volte, che membri subdominanti, p. es. le giovani femmine, vengano cacciati dal branco. Spesso capita però che siano i giovani maschi, di uno o due anni, a lasciare il branco, prima temporaneamente, poi definitivamente. Essi intraprendono una vita solitaria sino a quando hanno trovato una compagna con la quale fondare un nuovo branco.

ALTRI ESEMPI
Per lo più si tratta di relazioni utili, in termini di cooperazione e opportunismo, ma ci sono anche casi di vere amicizie, rapporti di piena parità.
I giovani maschi di babbuino spesso «adottano» piccole femmine all’età dello svezzamento e le proteggono per anni, quando queste femmine diverranno adulte più facilmente sceglieranno il loro protettore e amico per riprodursi.
I maschi di Macaca «adottano» per qualche ora del giorno piccoli che col tempo potrebbero più facilmente divenire spontanei alleati; simili fenomeni sono stati registrati anche nelle manguste e in altre specie, tra individui dello stesso o di diverso sesso.

Non mancano rapporti aneddotici di amicizie disinteressate, basate presumibilmente solo su affiatamento, consuetudine, solidarietà e lealtà. Vengono riportate abbastanza frequentemente tra gli animali domestici, che per lo più vivono in condizioni di competizione rilassata, in quanto foraggiati dall’uomo, ma anche tra i selvatici in natura (Goodall, 1986). Ricordo, in particolare, il caso di un licaone che si trattiene ad allontanare le iene da una carcassa per permettere ad un vecchio maschio malandato del suo gruppo, col quale era rimasto indietro rispetto al resto del branco, di mangiare a sazietà, trattenendosi egli stesso dal consumare la carne. Da quel vecchio maschio il giovane licaone non poteva aspettarsi molto, ma la cooperazione è così vitale per questa specie che nel branco ogni individuo ha valore. Se quel giovane maschio avesse però avuto dei cuccioli propri nel branco, probabilmente non sarebbe stato così generoso col vecchio.

1A - Cellule vegetali al microscopio

Abbiamo guardato al microscopio la pellicina (epidermide; ingrandimento 100x) della cipolla:


L’osservazione mostra cellule di forma quasi rettangolare, unite tra loro come mattonelle. Sono compattate, senza spazi tra una cellula e l'altra. I contorni delle cellule sono ben marcati e costituiscono la parete cellulare. Nel nostro campione il nucleo è poco visibile.


Guarda qui altre immagini delle cellule vegetali realizzate dai compagni negli anni scorsi: http://bredainrete.blogspot.it/2013/11/botanica-cellule-vegetali-felci-licheni.html http://bredainrete.blogspot.it/2013/10/cellule-vegetali.html

Adesso guarda quest'immagine, il manifesto della mostra FOOD che si tiene al Museo di Storia Naturale di Milano:

Cosa rappresenta secondo te?

martedì 9 dicembre 2014

1A - proprietà delle potenze

1a proprietà: il prodotto tra due o più potenze aventi la stessa base è una potenza avente per base la stessa base e per esponente la somma degli esponenti.

2a proprietà: il quoziente tra due potenze aventi la stessa base è una potenza avente per base la stessa base e per esponente la differenza degli esponenti.

3a proprietà: la potenza di una potenza è una potenza avente per base la stessa base e per esponente il prodotto degli esponenti.

4a proprietà: il prodotto tra due o più potenze aventi gli stessi esponenti è una potenza avente per base il prodotto delle basi e per esponente lo stesso esponente.

5a proprietà: il quoziente tra due potenze aventi gli stessi esponenti è una potenza avente per base il quoziente delle basi e per esponente lo stesso esponente.


La lezione completa qui: http://www.lezionidimatematica.net/Potenze/lezioni/pt_lezione_03.htm
Scarica il file.

lunedì 8 dicembre 2014

2A - Falegnami si diventa/2

Venerdì abbiamo fatto i primi passi per realizzare una cornicetta progettata con sketchup:

misure in cm



Abbiamo fatto un po' di pasticci a cui abbiamo rimediato: qualcuno ha tagliato 4 pezzi tutti uguali invece di 2 pezzi da 20 cm e 2 pezzi da 26 cm!

Scarica  gratuitamente sketchup:
http://www.sketchup.com/it

sabato 29 novembre 2014

2A - Falegnami si diventa

Brevissimo video del laboratorio di venerdì e qualche foto:








Qui invece si prepara il grano per la semina:



venerdì 28 novembre 2014

Il cacao di Richard

Oggi Richard ha portato a scuola un regalo portato dallo zio tornato dall'Africa. Un frutto dell'albero del cacao (Theobroma cacao) che abbiamo aperto insieme.
Il frutto si chiama cabossa, che ha la buccia solcata da 10 strisce longitudinali, e contiene molti semi avvolti una sostanza zuccherina gelatinosa.



All'interno sono racchiusi numerosi semi disposti in file:


Noi ne abbiamo tagliato uno. Si vede che è scuro:


Cosa si può fare con questi semi, detti fave?
Non si può fare il casa il procedimento industriale. Inoltre di solito le fave vengono asciugate al sole, distese su grandi stuoie, e mescolate continuamente, in modo che fermentino (vedi più avanti). Dopo una settimana l’acqua è in gran parte evaporata e le fave sono più scuro e con un aroma più accentuato.

La fermentazione (processo mediante i quali molti microrganismi, per la produzione dell’energia necessaria alle loro attività metaboliche, utilizzano l’energia chimica prodotta dalla demolizione di zuccheri) è un passaggio fondamentale per produrre quelle sostanze che poi, con la tostatura, daranno aroma al cioccolato.

Provare a fare il cioccolato?
Si potrebbe lasciare qualche giorno i semi a fermentare. Poi si potrebbe spazzolarli per rimuovere i residui e procedere con la tostatura in forno ad una temperatura tra i 110 °C e i 140 °C (in una ricetta ho trovato 120°C per 18 minuti; le fave diventano fragili e si rompono facilmente). In questo processo una reazione chimica (reazione di Maillard) produce le sostanze aromatiche che tanto apprezziamo.  Al termine della cottura, si rimuove il guscio. Poi potremmo schiacciare le fave (forse potremmo usare la macchina per fare la pasta, schiacciando tra due rulli le fave; frullatore, minipimer, macinacaffè  e tritacarne non vanno bene). Data la difficoltà di riprodurre in casa la procedura che utilizza macchinari speciali, potremmo fare il cioccolato di Modica.

Conosci il cioccolato di Modica?

Durante la loro dominazione in Sicilia (1600) gli Spagnoli introdussero a Modica la lavorazione del cioccolato così come l’avevano appresa nelle Americhe.

Si parte dai semi macinati. La massa viene riscaldata per renderla fluida e ad una precisa temperatura viene mischiata a zucchero semolato e spezie (cannella o vaniglia).
 Il composto così ottenuto viene mantenuto ad una temperatura non troppo alta in modo che si sciolgano i cristalli di zucchero. Il composto ottenuto si mette su degli stampi che verranno poi battuti per ottenere la tavoletta.

Storia del cacao
Sembra che i Maya dello Yucatan (Messico) crearono la prima piantagione di cacao nel 600 dC.
I conquistatori spagnoli ne scoprirono i frutti, che i nativi usavano sia per preparare bevande sia come moneta di scambio. I semi venivano arrostiti in pentole di coccio e triturati con delle pietre. Veniva preparata una bevanda amara detta Xocoatl.
Il cacao sbarca in Europa nel 1544, dove per la prima volta venne bevuto con lo zucchero.
Nel 1727 Nicholas Sanders aggiunge il latte al cacao ottenendo una specie di “cioccolata al latte”.
Nel 1828 che il chimico olandese Conrad van Houten inventò un procedimento per pressare la pasta di cacao e separare parte del grasso detto burro di cacao.
Con il burro di cacao, unito a zucchero e cacao macinato, l'inglese Joseph Fry otteneva una pasta che poteva essere modellata.  Nasce così la prima tavoletta di cioccolato, commercializzata dalla sua azienda, la Fry & Sons, nel 1847.
Nel 1865 l’Italiano Paolo Caffarel aggiunge delle nocciole alla pasta di cioccolato, creando il gianduiotto.
Nel 1875 Daniel Peters in Svizzera ha l’idea di aggiungere il latte al cioccolato ma ottenne risultati poco soddisfacenti. Un altro svizzero, Henry Nestlè, che aveva appena inventato il latte condensato, lo addizionò alla massa di cacao migliorando enormemente il processo.
Nel 1879, Rudolph Lindt perfeziona ulteriormente il cioccolato introducendo il concaggio, processo in cui dei rulli di granito passano avanti e indietro anche per giorni sulla massa di cioccolato, riducendo le dimensioni delle particelle di cacao. Lindt produce il primo cioccolato fondant, il fondente. Mentre prima la tavoletta di cioccolato andava masticata, con il processo messo a punto da Lindt si scioglie in bocca.

Altre notizie :
http://it.wikihow.com/Fare-il-Cioccolato
http://www.alimentipedia.it/fave-di-cacao.html
http://www.aidepi.it/

lunedì 24 novembre 2014

Samantha tra le stelle

È cominciata Futura, la missione dell'Agenzia Spaziale Europea (Esa), la seconda dell'Agenzia spaziale italiana.
Samantha Cristoforetti, la prima astronauta italiana, è partita: in sei ore raggiungerà la Stazione spaziale internazionale (ISS).  È decollata con un razzo Soyuz da Bajkonur, in Kazakhstan. L'attracco alla Iss è previsto per le 3.53.
Il lancio è andato alla perfezione, la navicella è entrata in orbita ed ha aperto i pannelli solari e le antenne. A bordo con Samantha il comandante della Soyuz Anton Shkaplerov e l'americano Terry Virts. Nata a Milano ma cresciuta a Malè , Samantha ha 34 anni. E' pilota militare, capitano dell'aeronautica e ingegnere.
Guarda sul sito dell'ESA l'avventura di Samatha.
 
Vuoi sapere come si diventa astronauti?
Leggi qui.

mercoledì 12 novembre 2014

1A- L'amido

L'amido è un composto contenuto in pane, pasta, riso, patate, caratterizzato da un gran numero di unità di glucosio polimerizzate, cioè unite a formare un polimero, una lunga catena fatta di tante unità di glucosio (che possono variare da qualche centinaio fino ad alcune migliaia).

L'amido è il carboidrato di riserva delle piante, immagazzinato come fonte energetica, prodotto a partire dal glucosio (C6H12O6), a sua volta sintetizzato dalla fotosintesi clorofilliana:

6 CO2 + 6 H2O + luce + clorofilla → C6H12O6 + 6 O2

(che vuol dire anidride carbonica e acqua in presenza di luce e clorofilla si trasformano in glucosio ed ossigeno)

Noi lo abbiamo visto al microscopio dopo aver preparato dei vetrini con un po' di polpa di patata a cui abbiamo aggiunto una goccia di tintura di iodio. Anche un chicco di riso cotto e schiacciato mostrava al microscopio i tipici granuli di amido.



La clorofilla è il pigmento verde contenuto nelle foglie.

2A- Scriviamo con l'inchiostro ferrogallico

Ecco le firme dei copisti della 2A:




















Prima della diffusione della stampa l'amanuense (chiamato anche copista) era chi, per mestiere, ricopiava manoscritti. Nell'antichità classica la professione di amanuense era esercitata dagli schiavi. Dall'Alto Medioevo fu coltivata soprattutto in centri religiosi come le abbazie. A volte non c'è un unico copista ad eseguire il lavoro di riproduzione di un testo.
Il monaco benedettino copiava nella sua cella seduto con il codice sulle ginocchia, a volte usando una tavola di legno come appoggio. Solo più avanti, nel Basso Medioevo, si usavano un leggio o un tavolo.

La parola amanuense deriva dal latino servus a manu, il temine con cui i romani chiamavano gli scribi. I monaci amanuensi vivevano molte ore della giornata nello scriptorium; a loro veniva permesso di saltare alcune ore canoniche di preghiera.

Ecco come nel best seller Il nome della rosa [Bompiani, Milano, 1980, pp. 79-91] lo scrittore Umberto Eco descrive lo scriptorium:

 ... lo scriptorium ... si offriva quindi ai miei sguardi in tutta la sua spaziosa immensità. Le volte, curve e non troppo alte (meno che in una chiesa, più tuttavia che in ogni altra sala capitolare che mai vidi), sostenute da robusti pilastri, racchiudevano uno spazio soffuso di bellissima luce, perché tre enormi finestre si aprivano su ciascun lato maggiore, mentre cinque finestre minori traforavano ciascuno dei cinque lati esterni di ciascun torrione; otto finestre alte e strette, infine, lasciavano che la luce entrasse anche dal pozzo ottagonale interno. 
L’abbondanza di finestre faceva sì ché la gran sala fosse allietata da una luce continua e diffusa, anche se si era in un pomeriggio d’inverno. Le vetrate non erano colorate come quelle delle chiese, e i piombi di riunione fissavano riquadri di vetro incolore, perché la luce entrasse nel modo più puro possibile, non modulata dall’arte umana, e servisse al suo scopo, che era di illuminare il lavoro della lettura e della scrittura. ... mi sentii pervaso di grande consolazione e pensai quanto dovesse essere piacevole lavorare in quel luogo. Quale apparve ai miei occhi, in quell’ora meridiana, esso mi sembrò un gioioso opificio di sapienza. 
Vidi poi in seguito a San Gallo uno scriptorium di simili proporzioni, separato dalla biblioteca (in altri luoghi i monaci lavoravano nel luogo stesso dove erano custoditi i libri), ma non come questo bellamente disposto. Antiquarii, librarii, rubricatori e studiosi stavano seduti ciascuno al proprio tavolo, un tavolo sotto ciascuna delle finestre. E siccome le finestre erano quaranta (numero veramente perfetto dovuto alla decuplicazione del quadragono, come se i dieci comandamenti fossero stati magnificati dalle quattro virtù cardinali) quaranta monaci avrebbero potuto lavorare all’unisono, anche se in quel momento erano appena una trentina. Severino ci spiegò che i monaci che lavoravano allo scriptorium erano dispensati dagli uffici di terza, sesta e nona per non dover interrompere il loro lavoro nelle ore di luce, e arrestavano le loro attività solo al tramonto, per vespro. I posti più luminosi erano riservati agli antiquarii, gli alluminatori più esperti, ai rubricatori e ai copisti. Ogni tavolo aveva tutto quanto servisse per miniare e copiare: corni da inchiostro, penne fini che alcuni monaci stavano affinando con un coltello sottile, pietrapomice per rendere liscia la pergamena, regoli per tracciare le linee su cui si sarebbe distesa la scrittura. Accanto a ogni scriba, o al culmine del piano inclinato di ogni tavolo, stava un leggio, su cui posava il codice da copiare, la pagina coperta da mascherine che inquadravano la linea che in quel momento veniva trascritta. E alcuni avevano inchiostri d’oro e di altri colori. Altri invece stavano solo leggendo libri, e trascrivevano appunti su loro privati quaderni o tavolette. ...

I manoscritti medievali sono alla base delle nostre edizioni moderne.
Studiare le opere classiche trasmesse attraverso i manoscritti significa confrontare ogni copia manoscritta conservata perché solo in rarissimi casi sono sopravvissuti gli originali.
Le opere che si leggono a scuola sono state ricostruite a partire dal confronto tra manoscritti conservati in biblioteche ed archivi. Naturalmente le copie non erano esenti da errori. Una leggenda attribuisce a un diavoletto, chiamato Titivillus, la responsabilità di questi errori.

Guarda qualche immagine tratta da codici antichi.
Le prime due sono l'ultima terzina dell'Inferno di Dante Alighieri, e la prima terzina dello stesso. La prima è la scrittura di Giovanni Boccaccio, un altro importante autore italiano, l'autore del Decameron. La seconda è una copia fatta dal Maestro Galvano. Ci sino altri manoscritti, il cui elenco si può vedere sul sito www.danteonline.it


Trascrizione:
Salimmo suso el primo (et) io secondo
tanto chio uidi delle cose belle
che porta il ciel p(er) un p(er)tugio tondo
Et quindi uscimmo ad riueder le stelle


Trascrizione:
Nel meço del camin de nostra uita
Me ritrouai per una selua scura
Che la drita uia era smarita

Questa invece è l'immagine di una pergamena conservata nel Monastero di San Gallo in Svizzera. E' una copia eseguita verso l'880-890 dei libri I-X delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia († 636). Tutte le informazioni sono sul sito http://www.e-codices.unifr.ch/it/list/one/csg/0231

Trascrizione:
Arithmetica et disciplina numerorum. Graeci enim numerum ἀριθμόν dicunt. Quam scriptores saecularium litterarum inter disciplinas mathematicas ideo primam esse voluerunt, quoniam ipsa ut sit nullam aliam indiget disciplinam.
Traduzione:
L’aritmetica è la disciplina dei numeri. I Greci chiamano il numero aritmon. Gli scrittori di materie secolari hanno voluto che fosse la prima tra le discipline matematiche proprio perché essa non necessita di altre discipline. Invece la musica, la geometria e l’astronomia, che seguono, hanno bisogno del suo aiuto per esistere.

Questo libro, le Etymologiae, può essere considerata la prima Enciclopedia della cultura occidentale. Fu redatta dal sapiente Isidoro di Siviglia, morto nel 636, sul finir della sua vita. Il titolo spiega il metodo metodo utilizzato da Isidoro per insegnare: spiegare il significato di una parola attraverso la comprensione della sua etimologia. E' suddivisa in venti libri in cui sono elencate parole che condensano la conoscenza umana del tempo di Isidoro. Per gran parte del Medioevo, è stato il testo più utilizzato per fornire un'istruzione educativa.

Per finire, ecco qualche disegno tratto da una raccolta di "scarabocchi" che i copisti facevano a margine dei testi che copiavano ( o forse sono pasticci aggiunti successivamente):



Sono stati raccolti e catalogati da uno storico del medioevo, Erik Kwakkel, che li chiama i doodles dell'antichità.